Il giudizio della sera

(…) Per le vacanze tornammo in paese. Mio padre venne a prendermi alla stazione, il pomeriggio era umido, grigio, una leggera nebbia di gelo avvolgeva gli edifici. La stazione era affollata, c’erano molti militari che ripartivano e altri tornavano in licenza.

Vidi i magazzini sorti in quegli anni per il commercio delle arance, era accaduto come per i villaggi del West, prima un piccolo deposito poi un altro, poi un magazzino e un altro più grande, e adesso c’erano decine di magazzini, la banca, il bar, perfino il barbiere. Mancava tuttavia l’animazione degli altri anni, i camion e i carri che al tempo di Natale passavano continuamente, pieni di ceste di mandarini e arance da caricare sui treni.

“Non hanno cominciato?” chiesi a mio padre.

Era venuto col calessino che s’era fatto l’anno prima coi soldi delle arance, poiché a Lentini uno che cominciava a essere proprietario doveva avere il calessino. Stava caricando le valigie e non mi rispose; il tonfo di una valigia lanciata con forza e caduta male fece gemere tutte le molle. “Porco mondo,” disse. Capii che era irritato: per tutto il tempo della strada, dalla stazione al paese, non parlò.

Pure in casa non trovai allegria.

Ma che c’é?” chiesi. Temevo fosse arrivata qualche brutta notizia da scuola.

“Hai fame?” mi chiese mia madre. Fiutavo gli odori amici della mia casa: c’era odore di miele e di arance, un odore insieme morbido, acre e familiare di cui erano intrisi i mobili, le pareti, le vesti di mia madre.

“Non ho fame,” risposi.

Mio padre era già andato via. Mi parve strano che non si fosse fermato, e mia madre, “é in piazza a trattare il giardino”, chiarì sotto il mio sguardo perplesso.

          

                 Lentini é un paese che vive di arance: per zappare, per potare, per raccogliere, per trasportare, per imballare, per vendere, si può dire che tutta la gente lavora coi giardini.

Perciò si parla sempre di arance, specie se l’annata va male ché in questo caso denaro non ne circola e i debiti si accumulano a dismisura. Nelle strade, in piazza, al cinema, perfino in chiesa, qualunque cosa la gente stia facendo, c’é sempre il momento in cui parla di arance. E da quando a mio padre venne in testa di farsi il giardino, anche in casa mia – da allora – si parla di arance, di annate, di vendita.

Ricordo serate d’inverno, veniva qualcuno a trovarci e si parlava di concime e acqua, della dose giusta dell’uno e dell’altro, di terra, della misura delle conche; lunghe serate che mia madre cuciva in silenzio, io e mio fratello giocavamo senza rumore, e mio padre cascava dal sonno e parlava di arance.

L’albero dell’arancio è delicato, bello, importante.

Senza di esso la Sicilia probabilmente non avrebbe posseduto le accese policromie del carretto – le rebus qui marche, come con gaia ironia lo definì Maupassant -, ché il rosso e il giallo dell’arancia, il verde lucente delle sue foglie, oltre al turchino del cielo e del mare, ne sono i colori fondamentali; né avremmo avuto certi colori della pittura di Guttuso, la serena mestizia di certi suoi “giardini” che celano e svelano nel loro tripudio la vecchia siciliana malinconia della morte e del disfacimento; neppure alcune forme, ancorché embrionali e non prive di caparbia ed estrosa empiricità, di un’economia moderna, tendente se non altro a superare l’individualismo che non é proprio del lavoro dei campi.

L’arancio no. L’arancio per sua natura, esclude il lavoro individuale e richiede un lavoro a squadre, a gruppi, a gomito a gomito come qui infatti si dice, dunque l’indizio di un proletariato agricolo, d’una coscienza collettiva e quasi di classe. E poiché la gran parte dei proprietari proviene dalle file medesime del contadino, questa situazione, unita a quella coscienza quasi di classe, spiega non solo l’asprezza e la vastità delle lotte salariali, ma ci fa intendere la torva alterigia e l’altrettanto torva acrimonia che le contraddistinguono.

Pertanto – e questo é il costituzionale limite di ogni proletariato agricolo – la posizione di tali contadini-proletari verso il padrone rimane duplice e contraddittoria: poiché essi, a causa della condizione – e della coscienza – di subalterni e sfruttati, si pongono é vero contro i padroni; ma l’istanza classista non è mai rivolta al generale e alla totalità, per cui i veri sentimenti animatori del contadino e delle sue lotte sono il risentimento, l’invidia, la ritorsione, tanto è vero che il fine al quale esso aspira non è tanto – non è per nulla starei per dire se si vanno a cogliere le piccole percezioni del subconscio – di sopprimere l’estraneazione mediante la soppressione della causa di questa; e invece l’estraneazione del lavoro cerca di sopprimerla mediante un’altra estraneazione, cioé con la proprietà.

Il contadino-proletario “vuole” diventare proprietario e l’anima sua mediante come dice Proudhon -e come la teoria e la pratica rivoluzionaria dimentica troppo spesso – “é nell’idea allodiale”.

Perciò il giardino, dalle mie parti, ‘u iardinu, é principalmente un ruolo, uno status, e molto meno la fonte di reddito. E essenzialmente potenza, supremazia e gerarchia, una sovranità assoluta sia pure assai circoscritta e spazialmente limitata; se il possesso di esso – del giardino – comporta immediatamente il salto di qualità, il passaggio cioè alla classe dei proprietari; il che, a propria volta, impone tutti gli obblighi inerenti [noblesse oblige] primo fra tutti di non andare a lavorare sotto altri.

Ciò peraltro aiuta a capire perché dalle mie parti se un’annata va male o per gelo grandine mancanza di pioggia estiva che distruggono la produzione o ne fanno calare di molto il peso; oppure per le alchimie del mercato o per capriccio dell’arancia-merce-feticcio, spiega – dicevo – perché al mio paese e negli altri limitrofi, i proprietari – costoro di cui parlo, che possiedono un terreno con duecento-trecento alberi – stanno tutto il giorno a cacciar mosche per le vie, lamentandosi della vita e del destino, e senza un soldo in tasca, non dico per la tazza del caffè – ché il caffè, in un modo o nell’altro riescono a sgraffiarlo – ma per sfamare e vestire la famiglia.

 

            Epperò, se il proprietario [questo contadino-proprietario] non lavora più sotto gli altri, lavora sotto di sé, voglio dire sotto il suo orgoglio di proprietario che prima acquista il terreno [ma più spesso se lo ritrova, o, come per mio padre, gli viene portato dalla moglie: un nudo terreno pietroso tramandato da generazioni], poi libera il terreno dalle pietre, poi acquista l’acqua, poi scava le conche per piantare gli alberi e li pianta, e aspetta dai sette ai dieci anni per cominciare a ricavare i primi veri soldi; nel frattempo, anno per anno, deve concimare, zappare, potare, abbeverare, nutrire d’ogni ben di dio quei feticci dalle spesse foglie verdi.

Di regola, muore prima di riuscire a goderseli i soldi del giardino, stroncato dalle inumane fatiche a cui per anni si é sottoposto.

E nulla sarebbe, se almeno i figli se li potessero godere quei soldi, e invece no; invece no, perché nei figli già ammalati della malattia del padre, si genera una nuova e perversa sollecitudine: quella dell’ingrandimento, onde i guadagni del giardino vengono impiegati ad acquistare la nuova terra e istituire la nuova piantagione, e con in meno questo, rispetto ai padri: che i figli essendo proprietari per discendenza, a essi non compete più di lavorare – poiché soltanto certi filosofi e i poeti senili possono celebrare il lavoro dei campi: nessuno c e come il contadino, sopratutto l’ex contadino, che tanto odia il lavoro e i campi – , ed é agli altri, ai senza terra, che compete l’umiliante incombenza, mentre a essi

– ai figli – solo di pagare e di guardare” [sorvegliare], per cui le cambiali a unirle una all’altra, potrebbero arrivare da Lentini a Roma e anche oltre.

Tuttavia, e talora, il giuoco riesce: voglio dire che c’é gente e ce n’é stata al mio paese e continuerà a esserci, cui le cose vanno bene. E quando il giardino va bene, quando il frutto é venduto al momento giusto, quando nulla sia intervenuto di calamitosi eventi naturali, allora con il ricavato ci si toglie i debiti in un colpo solo e si mettono da parte i soldi per la casa nuova; se le cose continuano ad andar bene, ecco che un mattino, zitto zitto, questo proprietario si fa abbattere la casa vecchia sciorinando al sole le unte mattonelle in creta del pavimento, le pareti calcinate e screpolate, le canne del soffitto nere per fumo e antico luridume, sbattendo in faccia a tutti la precedente miseria poiché, tanto, avrà la casa nuova, coi balconi, la terrazza, i marmi. La casa – coi balconi – é il secondo idolo succedaneo al primo e conseguenza diretta di esso, ed entrambi – giardino e casa – costituiscono la prova provata e tangibile d’un abbrivo svettante che non ha soste.

Quella del giardino é dunque filosofia e visione della vita, e una figlia con giardino é diversa da una figlia senza giardino, quest’ultima certamente condannata a una sterile vita e orbata di prole e coniugali piaceri.

Finita la casa, ripulito il davanti dai resti di calce e terriccio, spudoratamente fatto intravedere ai vicini l’ampiezza dei vani e lo scintillio dei nuovi lampadari, la famiglia resta in pace col mondo per un anno o due. Se le continuano ad andar bene, allora già al quinto anno si può acquistare un altro giardino, e successivamente, col ricavato di entrambi, un terzo ancora.

Le cose, per alcuni, sono andate così. E anno dopo anno, il giardino potrebbe crescere a dismisura, una partenogenesi fagocitante e senza fine, se anche qui qualcosa non intervenisse a equilibrare le dovizie e a sopire le lunghe e sorde invidie: un figlio degenere, speculazioni rovinose, matrimoni di figlie con mariti anch’essi degeneri, insomma un maltusianesimo da giardino, a spezzare questa lunga catena – che però per i pochissimi continua.)

Per mio padre il giardino era tutto questo: era rivalsa e sogno, ingresso nel mondo e consistenza di ceto e censo.

“Senza il giardino uno é niente,” usava dire.

da Il giudizio della sera  – Garzanti – Milano 1974

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